La fierezza delle origini contadine, ostentate lì dove a volte fa comodo sorvolare su chi siamo e da dove veniamo. Franco Di Silverio era orgoglioso delle sue radici, si faceva quasi vanto di usare colloquialmente il dialetto, la lingua madre, pur padroneggiando un italiano forbito. Era partito da Picciano per abbracciare la medicina, con la sola intelligenza nella bisaccia. Il padre Clementino aveva fatto sacrifici per farlo studiare a Roma.
Spesso il pranzo gli arrivava da Picciano, via Pescara, col treno. Altre volte Franco Di Silverio faceva la comparsa a Cinecittà, l’allora Hollywood sul Tevere, per rimediare il cestino e qualche soldo. Era uno degli emigranti dell’Abruzzo povero destinato a un grande futuro. Caparbio come solo un abruzzese, brillante negli studi, incaponito a percorrere la strada più difficile, quella della ricerca, per seguire un intuito che nei primi tempi gli fece ingoiare bocconi amari.
Faceva il giro degli ospedali con la sua 500, poi lavorava alle sue ricerche per dimostrare che una molecola utilizzata in veterinaria era la base della cura al carcinoma della prostata. Lo invitarono a un congresso con i grandi luminari dell’epoca: era un’imboscata contro il ragazzo di campagna fresco di laurea e una scoperta rivoluzionaria in tasca. I “baroni” della medicina e una multinazionale farmaceutica dovettero però inchinarsi di fronte a quell’abruzzese piccolo e testardo dagli occhi chiari che guardava dritto in faccia e non faceva sconti a nessuno.
Franco Di Silverio diventava “il professore”, come lo chiamavano a Picciano e dove comunque lui era Emidio, secondo l’usanza paesana del nomignolo. La sua vita è stata a contatto continuo con vip e grandi, ma con la passione per la semplicità. Curò Dino Grandi, e raccontava quando l’ex ambasciatore riuscì a far arrivare da Berlino per via diplomatica un farmaco introvabile in Italia; non raccontò mai, legato al segreto di Stato, l’esperienza al capezzale di Francisco Franco, quando la Spagna doveva gestire il passaggio dalla dittatura alla monarchia di Juan Carlos: chiamarono lui perché la sua fama era globale, come la sua statura scientifica.
I suoi libri venivano adottati dalle università americane: la prima volta di un italiano. Non c’era convegno di altissimo livello senza una sua relazione. Fino all’ultimo. Girava il mondo e si abbeverava alla sua curiosità innata. La sua cultura non era solo quella di un luminare della medicina, ma di un intellettuale a tutto tondo. Che non lo dava a vedere. Imprenditori, politici, attori, jet-set, conosceva il Gotha e tutti lo conoscevano.
Nel 1989 volle omaggiare le sue origini e il padre Clementino inventandosi il Museo delle arti e tradizioni contadine. Chiamò l’amico Mario Garbuglia per disegnarne le linee eleganti attorno alla casa natale. Partì da 300 oggetti, per una scommessa da visionario illuminato. «C’è chi si compra lo yacht, io preferisco fare un museo», diceva con un’alzata di spalle. Oggi la sua eredità ne fa il più grande d’Europa dedicato alla civiltà contadina. Ci tornava ogni fine settimana, salvo impegni all’estero.
Vi contribuì anche l’amico Giuseppe Sinopoli, che a Picciano ancora ricordano girare in una vecchia 500 blu col professor Di Silverio al volante, a studiare l’acustica della chiesa per il concerto degli emigranti che andò in mondovisione dal Museo. O le serate con Ennio Morricone, che Di Silverio “obbligò” a scrivere i commenti sonori delle mostre che tirava fuori dal cilindro come un prestigiatore della cultura. O Giuseppe Tornatore, in qualche modo “scoperto” da Di Silverio che intuì le potenzialità di quel giovane siciliano approdato a Roma. Ci rivide un po’ della sua storia, da emigrante di successo.
Marco Patricelli